La storia dell’arte a distanza, ovvero Lost in Translation

La tecnologia non è mia nemica.
Non sono Mark Zuckerberg, ma nemmeno un’analfabeta digitale.
La lezione tradizionale non è un dogma assoluto. 

Faccio queste brevi riflessioni-premessa non perché, come direbbe mio marito, io abbia la “coda di paglia”, ma semplicemente per dare una cornice a ciò che di seguito scriverò; usando un lessico artistico, per inserire le mie parole in uno sfondo.
Dunque, sulla DAD (avete notato quanto siano sempre molto di tendenza gli acronimi nel mondo dell’educazione?) si sono già esaustivamente espressi pedagogisti, psicologi ed esperti di didattica, pertanto non mi dilungherò sugli aspetti teorici e tecnico-pratici connessi a questa modalità didattica in cui l’emergenza sanitaria ci ha immersi, full-immersi, direi. 
Insegno storia dell’arte nei Licei, una disciplina già provata dall’esigua quantità di ore settimanali concentrate esclusivamente al triennio. Penserete a questo punto che la didattica a distanza possa essere un’imperdibile occasione per ampliare gli orizzonti sfruttando le innumerevoli e pregevoli risorse on line: siti di musei, tour virtuali di mostre, immagini in HD, libri digitali con animazioni… Tutto vero: la quantità e la qualità delle informazioni non sono in discussione. 
Però, sì, c’è un “però” e questo è legato a quel qualcosa che si perde nella lezione on line. Ciò che si perde lo definirei con il titolo di un film dei primi anni del 2000, uno di quei film a cui forse fino ai giorni non avevo più pensato: Lost in Translation, ciò che si perde nella traduzione, quei concetti propri di una lingua che a fatica si possono traghettare in un’altra. Calato nell’insegnamento della storia dell’arte: la perdita di ciò che un’opera d’arte suscita in chi la guarda. L’emozione non è percepibile, dalla didattica in presenza alla didattica a distanza si perde la reazione, si perde l’effetto emotivo, positivo o negativo che sia. Se proietto on line un’opera di Egon Schiele, non ho davanti i volti della classe su cui l’angoscia del pittore si riflette, l’angoscia probabilmente c’è, ma rimane bloccata dallo schermo, senza possibilità di liberarsi. 
Se parlo di Ville Palladiane, non posso dare come compito a casa, la visita di Villa Barbaro a Maser e impostare poi un confronto a caldo su quanto visto, perché attualmente gli spostamenti non sono sicuri, quindi la visione rimane lontana, tante belle immagini, tanto ingrandimenti planimetrici, ma zero contatto e approccio emozionale con l’opera architettonica. 
Se spiego il Dadaismo non sento quel brusio di voci contrastanti che oppongono i sostenitori ed estimatori del movimento, ai detrattori che non lo considerano una vera forma d’arte, manca quel “lo potevo fare anch’io” da cui partire per una lunga discussone sul senso dell’arte. Durante le videolezioni si interviene uno alla volta e questo spesso fa perdere l’attimo, la spontaneità e la prima impressione.  Gli studenti sono nelle loro stanze, come in un quadro di Hopper, mai così attuale nelle sue immagini di solitudine urbana e domestica. 
Quello che veramente si perde lo vorrei dire con Alan Bennet, con una frase emblematica che spesso cito in classe: “Bisogna pur cominciare da qualche parte, e qualsiasi cosa ti attiri di un quadro è meglio di niente” (A. Bennet, Una visita guidata, Adelphi, 2008). Ma questo “qualcosa” che ci attira di un’opera rimane bloccato da uno schermo, non diventa emozione condivisa. Forse, chissà,  rimbalzerà e rimarrà nell’interiorità di chi osserva da lontano. 

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